“Fare la cresta” allude all’azione di effettuare una piccola ruberia su un incarico di acquisto o, in senso più generale, trattenere per sé una porzione contenuta di una transazione / operazione che si sta effettuando per conto di terzi. Ma che c’entra la “cresta”?
Niente, se per “cresta” pensiamo all’escrescenza sulla testa di galli e galline.
Secondo le teorie più in voga, cresta sarebbe da collegarsi a “crista”, termine con cui i romani indicavano la decorazione di crine sopra l’elmo, che rimanda a parole che indicano la cima, un cumulo superiore, la sommità. In senso figurato, quindi, fare la cresta è l’azione di creare e aggiungere un qualcosa (gonfiare cioè i conti) per ricavare un margine di profitto.

In alcuni dialetti, però, “cresta” o “resta” indica “acerba”, riferito alla frutta e questo è un significato pertinente ad una ipotesi diversa circa l’origine del detto.
“Fare la cresta” sarebbe da intendersi quale storpiatura di “fare l’agresto”.
A questo punto è necessario capire cosa sia l’agresto e per quale motivo l’azione di farlo sia sinonimo di una piccola ruberia.
L’agresto (dal latino agrestum, che significa anche acidulo e acer, che significa acre) è un condimento che si ottiene dalla cottura del mosto di uva acerba, con l’aggiunta di aceto e spezie. Le sue radici affondano nell’omphacium (dalla parola greca omphax che indica, appunto, l’uva acerba) degli antichi romani, che raccoglievano uva non ancora matura di varie qualità a luglio, la pigiavano e versavano il mosto in contenitori di rame, che venivano coperti con canovacci ed esposti al sole. Il mosto così cotto veniva poi conservato in botti e consumato dopo un anno. Nel corso dei secoli e nelle varie zone geografiche di diffusione, l’omphacium è diventato agresto , con alcune varianti di spezie e procedure di preparazione o maturazione.
Nel medioevo l’agresto era di gran moda, come alternativa all’aceto e al limone (più costosi) non solo come salsa da condimento ma anche per produrre bevande fresche estive (mescolato al succo d’uva e al miele).
Perché raccogliere l’uva acerba? Lo si fa anche oggi e per due volte, come facevano gli antichi romani.
In estate si effettua la “diradatura” dei grappoli delle uve da vino, è una procedura con cui alcuni grappoli vengono “sacrificati” e raccolti anzitempo per ottenere un vino più saporito, lasciando che la pianta si concentri sulla maturazione di meno frutti. In autunno, in fase di vendemmia (cioè raccolta dell’uva per produrre il vino), ci sono sempre dei grappoli che la pianta non è riuscita a maturare e che sono quindi acerbi.

Facile immaginare perché in tempi antichi si sia trovato un modo per non sprecare l’uva acerba e che da questo riuso siano nati l’omphacium e poi l’agresto.
Ma il detto?
Secondo voi chi effettuava sia la diradatura che la vendemmia? Ovviamente i servi, i mezzadri o i contadini, non certo i ricchi proprietari personalmente. E in fase soprattutto di vendemmia, come non immaginare che raccogliessero qualche grappolo maturo per se stessi?
Dunque “fare l’agresto” era sinonimo di una piccola ruberia della quale erano un po’ tutti consapevoli ma che restava comunque un gesto scorretto.



